Negli ultimi giorni del 2020 sono iniziate in Italia le prime somministrazioni del vaccino contro il COVID-19. Questo risultato è stato reso possibile grazie ad enormi sforzi della comunità medica internazionale. Il vaccino è sicuramente un’arma molto potente nella lotta contro il COVID-19, specialmente nella prevenzione contro questa infezione. Ma, oltre alla prevenzione, non dimentichiamo quanto importante sia la cura di questa malattia.
L’infezione determinata dal virus Covid-19 ha provocato quadri patologici in precedenza sconosciuti con gravità e presentazione clinica molto diversi tra loro; questo ha determinato l’incapacità di tracciare una linea terapeutica unica da seguire a livello internazionale creando difficoltà nella gestione terapeutica. A questo vanno aggiunte le condizioni critiche in cui si sono trovati ad operare molti ospedali, specialmente per quanto riguarda il nord Italia, letteralmente travolti dallo tsunami di pazienti positivi al Covid 19.
Questi fattori hanno quindi creato delle “disparità” di trattamento e di esito della malattia nei pazienti. Più specificatamente quanto queste differenze di approccio terapeutico che includono senz’altro la qualità delle cure hanno influenzato la mortalità dei pazienti affetti da COVID?
Dobbiamo registrare, purtroppo, che il numero di morti per milione di abitanti e per numero di contagiati nel nostro Paese è tra i più alti nel mondo. Sono state addotte diverse spiegazioni che fanno riferimento soprattutto all’età media della nostra popolazione e alla maggior presenza di comorbidità nei nostri pazienti. Ma queste spiegazioni non sono sufficienti e l’interrogativo, che da medico mi pongo, relativo all’influenza del fattore qualità delle cure rimane e, come chi mi segue sa bene, mi tormenta da diverso tempo.
Lavorando sul campo so quanto sia importante in ogni caso inquadrare la condizione clinica del paziente ed effettuare una valutazione pluriparametrica strumentale per cercare di personalizzare la terapia e fare la cosa giusta al momento giusto. Una conferma sui miei dubbi e uno spiraglio conoscitivo l’ho trovato imbattendomi su un articolo pubblicato su JAMA Internal Medicine dal titolo “Variation in US Hospital Mortality rates for patients admitted with COVID-19 during the first 6 months of the pandemic”.
Lo scopo di questo studio era valutare la variazione della mortalità da Covid 19 e come questo valore si modificava con l’avanzare della pandemia, con l’aumento del numero di pazienti e con la qualità degli ospedali. Il campione studiato è stato di 38.517 pazienti ricoverati in 955 diversi ospedali americani dal primo gennaio 2020 al 30 giugno 2020 e in particolare è stato valutato un sottogruppo di 27.801 pazienti (72.2% dell’intero campione) ricoverati in 398 di questi ospedali che avessero trattato almeno 10 pazienti Covid-19 durante due periodi differenti (dal primo gennaio al 30 aprile e dal primo maggio al 30 giugno). L’endopoint primario valutato dai ricercatori è stato il rischio di eventi di mortalità a 30 giorni o di invio all’hospice per ogni ospedale, standardizzando questi dati anche in base alle differenze di età e comorbidità dei pazienti nei diversi ospedali. I risultati hanno mostrato come questo valore di mortalità a 30 giorni o di invio all’hospice raggiungesse il 15,65% nel quintile degli ospedali con performance peggiore contro il 9,06% degli ospedali nel quintile con outcomes migliori, una differenza quindi assolutamente significativa. Ma un altro dato mi ha colpito ancora di più: la differenza di questo rischio di eventi nello stesso ospedale in tempi diversi. In particolare, questo rischio di eventi calcolato in momenti diversi nel medesimo ospedale si riduceva dal 10,54% del quintile peggiore al 5,59% del quintile migliore. Infine, ben 376 ospedali (il 94% del campione di 398 ospedali) hanno migliorato i loro risultati di almeno un 25%, sia per l’acquisizione di maggiore esperienza nel tempo sia per la riduzione dell’impatto quantitativo dell’affluenza in ospedale.
Pertanto, l’importante differenza di outcomes clinici in un medesimo ospedale in tempi diversi ci sottolinea ancora una volta quanto sia determinante per mantenere la qualità assistenziale contenere la quantità di pazienti che si ricoverano.
I nostri lettori sanno bene quanto lo Stetoscopio Parlante già mesi fa avesse messo in evidenza come l’enorme numero di pazienti afferenti negli ospedali in un minimo lasso temporale abbia messo in crisi le potenzialità assistenziali, soprattutto al Nord.
Tutti questi dati ci confermano quanto sia possibile intervenire e diminuire il devastante impatto del Covid-19 attraverso un potenziamento delle strutture ospedaliere pubbliche e della telemedicina territoriale. Mi sono sempre battuto, infatti, per il potenziamento delle strutture territoriali: è solo attraverso un loro funzionamento a pieno regime che si possono filtrare i pazienti, soprattutto in corso di pandemia, per determinare quali necessitino di ricovero in ospedale e quali invece possono essere gestiti a livello ambulatoriale/domiciliare. Attraverso la telemedicina inoltre possiamo effettuare un monitoraggio domiciliare dei pazienti creando “posti letto virtuali” ed evitando il congestionamento degli ospedali.
Per concludere, ben vengano i vaccini nei confronti dei quali tutta la comunità medico-scientifica ripone enormi speranze per l’eradicazione della pandemia, ma non commettiamo l’errore di sottovalutare l’importanza di potenziare il nostro Sistema Sanitario Nazionale creandoci l’alibi, più o meno conscio, che la campagna vaccinale possa costituire la panacea per tutte le nostre criticità sociosanitarie.